La stimolazione cognitiva. La stimolazione cognitiva non ha come obiettivo il recupero delle abilità cognitive perse o danneggiate ma il mantenimento di quelle funzioni che ancora non sono state compromesse dalla malattia. Si parla di stimolazione cognitiva nelle patologie neuro-degenerative come nella demenza, dove non è possibile un recupero ma, attraverso un costante allenamento, si può cercare di contrastare l'impatto della malattia. Inizialmente viene fatta una valutazione del soggetto per comprendere su quali capacità residue lavorare e in che modo. Gli esercizi sono quindi rivolti a stimolare quelle funzioni e abilità non ancora colpite dalla degenerazione. La riabilitazione cognitiva. La riabilitazione cognitiva ha come obiettivo il ristabilire il funzionamento cognitivo il più vicino possibile a com'era prima dell'insorgenza della compromissione. In questo caso si mira ad un recupero delle abilità cognitive danneggiate . E' rivolta a soggetti di qualunque età che hanno subito una lesione cerebrale. Dopo un' attenta valutazione neuropsicologica viene concordato il piano d'intervento. Esistono due metodi:
La stimolazione cognitiva rivolta ad anziani attivi. Sessioni di "ginnastica mentale"sono utili per allenare le funzioni cognitive anche di persone che non hanno nessuna compromissione ma che vogliono sentirsi attive sul piano cognitivo. Nel corso degli incontri vengono proposte nuove tecniche di memorizzazione, vengono allenate le capacità di attenzione, di ragionamento, di memoria e di linguaggio permettendo l'acquisizione di una maggiore fiducia nelle proprie capacità.
0 Comments
La terapia del treno è una terapia non farmacologica che nasce in Olanda e ha come obiettivo quello di migliorare la qualità della vita delle persone affette da demenza. Obiettivi specifici: ridurre i sintomi comportamentali, stimolare i sensi e le funzioni cognitive. In che cosa consiste? Viene ricreata la sala d'aspetto di una stazione ferroviaria e il vagone di un treno con i i classici sedili da viaggio. Guarda le foto: qui Il finestrino è rappresentato da un televisore che trasmette immagini registrate di paesaggi che si susseguono per ricreare l'idea di essere in treno. Le poltrone sono posizionate frontalmente le une alle altre per favorire la comunicazione tra "passeggeri". La terapia è utilizzata in particolar modo per prevenire i disturbi comportamentali che lo spazio ristretto delle RSA e dei centri diurno facilitano. Dopo aver timbrato il biglietto del treno si inviterà la persona a salire accompagnato da un operatore. Durante il viaggio l'operatore ha il compito di stimolare le persone propense a dialogare e a stare vicino a quelle che preferiscono rilassarsi guardando dal finestrino. Se la persona riesce a mostrare piacere da questa attività, condividere ricordi, mostrare segnali di relax allora la terapia ha avuto un risultato positivo. Se i disturbi comportamentali si accentuano e se la persona si sente costretta allora la terapia da un esito negativo. La sperimentazione di questa terapia è ancora in atto, quindi non sono presenti dati scientifici rispetto alla sua validità. Questa terapia non farmacologica nasce in Olanda negli anni '70 ed ha come obiettivo la stimolazione dei cinque sensi: vista, udito, tatto, gusto e olfatto. Questo approccio nasce per le persone con disabilità intellettiva e problemi di apprendimento. Solo negli ultimi anni è stato sperimentato anche con gli anziani fragili con decadimento cognitivo. Gli studi presenti in letteratura sembrano dimostrare degli effetti positivi nelle persone affette da demenza per quanto riguarda il tono dell'umore, l'aggressività, l'ansia e l'apatia. Come creare una stanza multisensoriale: Per la stimolazione della vista: effetti luminosi, colori, immagini, giochi d'acqua Per la stimolazione dell'udito: musiche rilassanti, suoni Per la stimolazione del gusto: assaggi di cibo Per la stimolazione dell'olfatto: aromi, profumi Per la stimolazione del tatto: pannelli tattili La persona è libera di scegliere se interagire con l'ambiente e con cosa, accompagnata dall'operatore. Durata: 30 minuti circa, una o due volte a settimana. Da valutare in base alle caratteristiche e alle problematiche della persona. Il "Nurturing touch" è una Terapia Neozelandese detta anche " tocco che nutre" ideata da Peggy Dawson, circa 30 anni fa. L'obiettivo è dare sollievo alle persone malate e migliorare la qualità delle loro vite. Negli ultimi anni, anche in Italia, si stanno diffondendo corsi di formazioni per operatori e familiari riguardanti questa nuova terapia non farmacologica che inizia ad essere utilizzata anche all'interno delle strutture. E' difficile poter comunicare verbalmente con una persona con una patologia neurologica degenerativa, sopratutto nelle ultime fasi se non attraverso il contatto fisico e l'affetto. "Il nurturing touch" va oltre le parole e è rivolta alle persone affette da malattie gravi ormai agli ultimi stadi. Il tocco di cui si parla fa riferimento a dei massaggi specifici in grado di trasmettere conforto, affetto e far sentire la persona accolta. L'operatore deve saper trasmettere calma, deve essere consapevole di quello che sta facendo e deve trovarsi in uno stato d'animo in grado di "offrire all'altro". Per fare questo deve liberarsi dei problemi quotidiani e essere presente nel qui e ora con la persona. Prima del massaggio si cerca di porre attenzione al proprio respiro e poi, utilizzando tecniche immaginative, arrivare ad uno stato d'animo tranquillo in modo da potersi concentrare solo sulla persona che si ha davanti e sul quello che le si vuole trasmettere. Il massaggio " che nutre" ha bisogno di doti umane più che di tecniche per questo può essere insegnato facilmente ai familiari. Su cosa si basa il massaggio? Le carezzare e il contenimento sono le modalità più utilizzate in particolar modo come cure palliative. A queste si aggiungono le tecniche di massaggio di base. Quali parti del corpo sono interessate? I piedi, il braccio e la mano e a volte la schiena. Quando si svolge animazione all'interno di strutture per anziani bisogna tenere sempre a mente dei principi fondamentali. La persona deve essere posta al centro delle attività e per fare questo bisogna imparare a conoscerla, senza focalizzarci sulle sue difficoltà. Comprendere che cosa può riuscire a fare da sola e cosa no. Ogni persona è unica, con una storia alle spalle fatta di esperienze che hanno modellato la sua personalità portandola a sviluppare abilità e interessi. E' importante portare rispetto. Rispetto per l'anziano e la sua storia. Alcuni animatori tendono a relazionarsi con l'anziano in modo infantile o proponendo attività per bambini. Tali comportamenti possono far sentire l'anziano non capace e in una situazione di disagio. Quando l'utente afferma: "non sono un bambino, guarda come sono ridotto!" questo è un segnale che l'attività proposta non va bene, anzi va a sminuire la persona. E' importante che l'animatore sappia coinvolgere tutti i partecipanti. Le attività dovrebbero essere proposte in modo che non siano troppo facili, ne troppo difficili. L'ambiente dovrebbe essere tranquillo in particolar modo se sono presenti persone con deterioramento cognitivo. Non si chiede alla persona di portare a termine ciò che viene proposto ma che provi a farlo così come lo sa fare, indipendentemente dal risultato finale. L'animatore non deve svolgere l'attività al posto della persona, altrimenti viene perso il senso del suo lavoro. E' anche sbagliato assumere un atteggiamento da insegnante, che corregge o si sostituisce. Se si invia il messaggio che così come sta facendo non va bene, probabilmente la persona smetterà di fare anche quel poco che riesce a fare. Si deve cercare di offrire ai membri del gruppo attività alternative se quelli del programma non soddisfano le esigenze. Nessuno deve essere forzato a partecipare. E’ probabile che i riluttanti siano influenzati dal vedere gli altri divertirsi che dall’essere obbligati a partecipare. Non bisogna dare per scontato che una persona con demenza non sia in grado di partecipare. Bisogna dare tempo alla persona, le risposte e i movimenti sono più lenti. E' importante non sovraccaricarla di informazioni e aspettare che risponda. Se svolte adeguatamente, le attività di animazione possono essere utili a costruire e rinforzare le relazioni e mantenere attive le capacità, regalando alla persona emozioni positive e un senso di auto-efficacia. E' importante riuscire a stimolare e prolungare il più possibile l'autonomia della persona affetta da malattia di Alzheimer, sopratutto nelle prime fasi, quando ancora molte funzionalità sono conservate. Alcuni studi hanno infatti osservato che le competenze, se esercitate, vengono mantenute più a lungo nel tempo. Uno dei consigli che vengono dati ai familiari è lasciare che la persona continui a fare quello che fa e come lo sa fare se non è pericoloso per la sua incolumità e quella degli altri. Non è importante il risultato e la prestazione ma che la persona continui ad essere attiva. Uno dei comportamenti controproducenti nella relazione è la critica e le osservazioni sugli errori e sui problemi di memoria: " ma come, te l'ho detto poco fa?", " ma non ti ricordi come si fa, lo hai sempre fatto!". Questo atteggiamento è molto comune nelle prime fasi della malattia quando ancora non è avvenuta, da parte dei familiari, un'accettazione della patologia e si vorrebbe che tutto fosse come prima. E' importante sapere che il malato di Alzheimer non riesce ad apprendere nuove informazioni o imparare cose che non ha mai fatto. La persona va quindi sostenuta nel continuare ad essere attiva ma allo stesso tempo bisogna fare attenzione a non proporgli compiti che lo mettono davanti a troppe difficoltà. Per esempio, si osserva spesso che molte persone che prima passavano tanto tempo davanti ai fornelli ora si difendono dall'insuccesso dicendo che non hanno più voglia di cucinare, questa mancanza di voglia è dovuta al sentirsi insicuri perché sentono che da soli non possono riuscire. Quando vediamo la persona in difficoltà è giusto aiutarla ma non è giusto sostituirsi del tutto perché in questo modo favoriamo l'inattività e scoraggiamo la persona nel fare quello che ancora riuscirebbe a fare. Alcune attività quotidiane da svolgere insieme, in particolar modo nelle prime fasi della malattia. In cucina Scrivere insieme la lista per la spesa e gli ingredienti che servono per uno specifico dolce e poi prepararlo insieme. Mentre si sta cucinando si può chiedere al nostro caro di chiudere gli occhi e indovinare dall'odore il cibo. (stimolazione sensoriale). Si possono fare lavori con la pasta di sale per favorire la manualità magari insieme con i nipotini. Cercare in un depliant alcuni prodotti. In cucina è importante porre attenzione al gas e sorvegliare durante la preparazione dei pasti. Se la persona riesce, lasciarla fare, magari con un aiuto. Se la persona ha difficoltà si può coinvolgere in compiti più semplici. Se la persona vive da sola bisogna controllare il frigorifero, che non mangi cibo scaduto o che non compri sempre le stesse cose ma che riesca a diversificare. In salotto: Per esercitare l'utilizzo del telefono si consiglia di farlo continuare a rispondere e a telefonare. Cercare alcuni numeri nell'elenco o in una piccola rubrica o in un foglio. Leggere insieme a voce alta un articolo di giornale, giocare a carte, ascoltare canzoni, guardare insieme l'album delle fotografie. Esercitarsi nella firma. In camera: Sistemare i vestiti nei cassetti, aiutare a rifarsi il letto se non riesce da solo. All'aria aperta: Il movimento, le passeggiate sono fondamentali per la salute e per l'umore. Dott.ssa Annalisa Scarpini-psicologa clinica- riceve ad Ancona La terapia che come strumento utilizza le bambole è chiamata "Doll Therapy" o “Empathy Doll” e è nata grazie al contributo della terapeuta Britt-Marie Egedius-Jakobsson in Svezia, un paese specializzato nella produzione di questi oggetti. Le origini della terapia bambola L'uso terapeutico della terapia bambola trova le sue fondamenta a livello teorico dal lavoro dello psicologo John Bowlby da cui nasce il concetto di attaccamento. (1969). Negli ultimi anni, la sua spiegazione teorica sull'attaccamento, è stata applicata a persone affette da demenza. Miesen (1993) suggerisce che il bisogno di attaccamento delle persone con demenza, come il ricercare continuamente i genitori, indica insicurezza e il bisogno di ricongiungersi ad una figura familiare. Stephens et al (2012) sembrano essere d'accordo, affermando che le esperienze di perdita, di separazione e l'insicurezza sono tutti i temi della teoria dell'attaccamento che possono essere rintracciati nell'anziano. Oggi, la terapia della bambola viene considerata una delle terapie non farmacologiche che possono essere utilizzate con persone con Alzheimer. L'ideatrice di questa terapia è Britt Marie Egidius Jakobsson, psicoterapeuta che verso la fine degli anni Novanta la utilizzò per aiutare il suo bambino affetto da autismo. Il Dott. Ivo Cilesi è il responsabile della sperimentazione della terapia in Italia. A favore e contrari. I sostenitori della terapia bambola suggeriscono che il suo uso può aiutare la persona ad esprimere i bisogni insoddisfatti. Boas (1998), invece, ha criticato l'uso della terapia della bambola perché sembra trattare l'individuo con demenza in un modo 'infantile'. Salari (2002) sostiene che la vecchiaia non dovrebbe essere usata come una seconda infanzia. Ad oggi non c'è un supporto teorico per l' uso delle bambole nella pratica clinica. Evidenza empirica. Alcuni studi: Moore (2001) ha notato che l'uso della bambola portava ad una riduzione dell' agitazione, dell'aggressività e del vagabondaggio. Verity (2006) ha sottolineato i benefici sociali e comportamentali: "se la persona con demenza sorride, batte le mani quando ha una bambola in braccio, come si può dire che questa attività è inaccettabile?" I Limiti di questi studi: essi tendono ad essere osservazioni e le loro conclusioni non sono supportate da misure validate e rigorose. James e coll. (2006) hanno fornito 30 giocattoli (15 bambole e 15 orsi) in una casa di cura. Con la scala Likert, sono stati misurati i livelli di attività, agitazione e felicità. La maggior parte dei 14 residenti che hanno partecipato a questo studio in generale sembrava essere meno ansioso. Risultati simili sono riportati in uno studio di Ellingford et al (2007) su 66 residenti (di cui 34 hanno interagito con le bambole e 32 no) per un periodo di 6 mesi .Gli autori hanno riferito che in seguito all'introduzione della terapia con la bambola, i residenti hanno dimostrato miglioramenti significativi aumentando l'emissione di comportamenti positivi. Minshull (2009) nel suo studio utilizza nuovi strumenti di misura e osserva un aumento del benessere, che si riflette in ridotta agitazione, miglioramento dell'umore, aumento dell'appetito e una riduzione del vagabondaggio. La terapia della bambola, nella cura della demenza, non è stata studiata solo nel Regno Unito. Tamura et al (2001) hanno condotto uno studio in Giappone. Hanno scoperto che le bambole che avevano tratti più realistici erano meglio accettate e che i benefici terapeutici erano presenti nelle persone affette da 'demenza grave' e che il suo utilizzo ha contribuito a ridurre ansia, aggressività e vagabondaggio". Nakajima et al (2001) ha svolto uno studio simile in Giappone utilizzando animali invece di bambole. Non forniscono pero alcun fondamento teorico alla loro studio, nonostante i risultati che appaiono favorevoli. In Italia In un articolo Ivo Cilesi afferma che: " la bambola deve avere caratteristiche particolari (peso, posizione delle braccia e delle gambe, dimensioni e tratti somatici). Tramite l’accudimento la persona attiva relazioni tattili e di maternage che favoriscono la gestione e in alcuni la diminuzione di disturbi del comportamento quali agitazione, aggressività, apatia, comportamento motorio non adeguato". Una bambola o un bambino? Secondo Andrew (2006), la bambola deve essere presentata al malato in un modo da permettere alla persona di stabilire se si tratta di un bambino o una bambola giocattolo. È interessante notare che, se la bambola è percepita come un bambino, la persona con demenza non correggere questa percezione. Secondo Ivo Cilesi si possono verificare tre possibilità quando si presenta la bambola all'anziano: la prima è che viene riconosciuto come oggetto inanimato e quindi non viene considerato come elemento di attaccamento. Nel secondo caso la bambola viene accudita e riconosciuta come un bambino. Nel terzo si possono alternare momenti di attaccamento a indifferenza e rifiuto. Il problema di dire o no la verità nella cura della demenza non è qualcosa di nuovo. Schermer (2007) stabilisce che anche se la menzogna è sbagliata, può essere giustificata in alcuni casi. James ed altri (2006) hanno anche pubblicato delle linee guida etiche per quando potrebbe essere opportuno mentire a persone affette da demenza. Come si utilizza? Di solito la bambola viene somministrata in momenti specifici della giornata, valutando i progressi attraverso griglie di osservazione. Può essere proposta anche in momenti della giornata caratterizzati da apatia o agitazione esempio nel momento dell'igiene. Bibliografia Gary Mitchell , Hugh O’Donnell. The therapeutic use of doll therapy in dementia. British Journal of Nursing, 2013, Vol 22, No 6. Ivo Cilesi. Pazienti Alzheimer: Disturbi del comportamento e sperimentazioni. Annalisa Scarpini-psicologo clinico- riceve ad Ancona La limitata efficacia delle terapie farmacologiche nel rallentare il processo dementigeno, ha permesso di dirigere l'attenzione verso nuovi strumenti : " le terapie non farmacologiche".
Di queste " terapie" si è iniziato a parlarne circa 10 anni fa quando è stata sottolineata la necessità di esercitare le abilità residue per non perderle o comunque per non perderle troppo rapidamente e di migliorare la qualità della vita del malato Cosa sono le terapie non farmacologiche? Sono degli interventi non chimici, mirati e replicabili, centrati sulla persona che agiscono sulla sfera cognitiva, comportamentale, relazionale ed emotiva. Questi interventi non hanno lo scopo di recuperare le abilità compromesse ma di rallentare l'impatto della malattia. Premessa Prima di qualsiasi intervento l'operatore dovrà valutare le competenze residue della persona, oltre che la presenza o meno di disturbi comportamentali per poter costruire un trattamento a doc. Tecniche psicologiche e approcci teorici:
Bibliografia: C. Fagherazzi, P. Stefinlongo, R. Brugiolo. Trattamento farmacologico e non farmacologico della demenza di Alzheimer: evidenze. G Gerontol 2009;57:222-233 Annalisa Scarpini-psicologo clinico- riceve ad Ancona |
CONTATTITel.3385416763 Rimani aggiornato e continua a leggere gli articoli e le novità su Facebook:
|